Maurizio Torrealta di RaiNews24 entra nel dibattito sul giornalismo di guerra raccontando un'altra battaglia, quella mediatica: una battaglia combattuta con altre armi e da altri eserciti, ma che conta moltissimo perché é l'informazione a decidere chi vince e chi perde una guerra… Io non sono stato un giornalista sul campo di guerra; sono stato nella stanza di Rainews 24, una stanza particolare dove la luce non si spegne mai, una sorta di emergency room che lavora ventiquattr’ore su ventiquattro, dove non si può dire “l’ultimo spenga la luce”, perché non rimane mai vuota. Bene, in questo luogo si ha un po’ the big picture, la foto di insieme, i pezzi del mosaico che costituisce poi l’informazione: si ricevono appunto i collegamenti con gli inviati, si ricevono le notizie di tutte le agenzie, in continuazione.
E questo poi dà la possibilità di avere una visione di insieme di quest’altra battaglia, che non é più quella sul terreno di guerra ma é una battaglia su un altro campo, il nodo mediatico. E’ la battaglia mediatica: per capire questo – ed é importante – prima ancora di parlare della capacità singola del giornalista di raccontare, tralasciandola, vedendo solo gli eserciti mediatici schierati in campo si può avere una foto d’insieme che può essere utile: adesso vi elenco gli “eserciti” in campo per la II guerra in Iraq.
Avevamo la news-corporation di Murdoch, che significa la Fox news ma non solo: gli studi della Twentieth Century, e poi Sky News Italia e Sky News inghilterra, il New York Post ed il Sun inglese. Poi, sempre in questo grande schieramento di società dell’informazione, avevamo la General Electrics, che significa la rete televisiva NBC e la Microsoft-NBC online; poi la Viacom che significa la rete televisiva CBS, ma anche MTV e gli studi della Paramount e i diritti esclusivi della pubblicità sui treni, sulle metropolitane, sui cartelloni, sui chioschi della città di Los Angeles, di New York, di Chicago, San Francisco, Atlanta e di altre ottantuno città americane. Poi abbiamo la AOL Time Warner, che significa la CNN, l’ACDO che é uno dei più grandi distributori di segnali televisivi via cavo e gli studi della Warner Time Life; ed infine la Disney che significa la rete televisiva ABC. Poi abbiamo la Reuter e la Associated Press.
Era assente da questo schieramento di grandi gruppi informativi la confederazione delle televisioni europee, l’EBU, che aveva pensato che i giornalisti sarebbero stati sequestrati da Saddam una volta scoppiata la guerra e aveva deciso di non essere presente a Baghdad. Aveva aperto un punto di riversamento a Bassora, però in campo inglese – in un campo militare inglese; da questo luogo non era permesso ai membri dell’EBU che sono i giornalisti tedeschi e quelli francesi, di poter riversare i propri pezzi.
Questo é il campo di battaglia da una parte; dall’altra parte avevamo Al Jazeera, Al Arabia e la tv egiziana.
E’ chiaro a tutti che la battaglia mediatica era già persa in partenza, al di là della capacità di raccontare dei giornalisti, della loro correttezza e della loro efficacia. La guerra é stata chiusa con una cerimonia mediatica che é stata quella dell’abbattimento della statua di Saddam ed é stata definitivamente dichiarata chiusa da Bush con un’altra cerimonia mediatica, sulla portaerei della marina militare americana.
In realtà, la guerra é continuata lo vediamo tutti i giorni. Ma questo é proprio il punto: chi decide la vittoria o la sconfitta in una guerra? L’informazione, la capacità di segnalare o meno la pericolosità di quello che sta succedendo ed il livello di questa pericolosità. Guardiamo quello che sta succedendo in Afghanistan: in Afghanistan si dice che la guerra non c’é più, anche se la situazione continua ad essere pericolosa – ma il livello non é particolarmente alto. Chi determina questo? L’informazione che questi grandi gruppi editoriali trasmettono nella rete, nel sistema informativo mondiale. E questo è il punto principale, secondo me.
Capito questo si può quindi riconoscere che ci sono degli straordinari personaggi, grandi inviati che poco o nulla hanno a che vedere con la propria redazione e riescono comunque a dare le informazioni, riescono comunque a farci percepire spesso tra le righe, non ufficialmente, non dichiaratamente, non apertamente quello che in realtà sta avvenendo. E più queste persone fanno sul campo questo tipo di attività, più si guadagnanosul campo il diritto alla credibilità, che é una merce rarissima che non si compera al mercato ma si crea sul campo.
Sono anche convinto che questa grandissima, forte concentrazione dei mezzi di informazione – pensate che nel 1996 erano 50 le società che controllavano il 99% dell’informazione degli Stati Uniti e oggi sono cinque, quelle cinque che ho letto prima – vada di pari passo con un altro fenomeno che é invece la diffusione di mezzi e strumenti sempre più accessibili a chi vuole fare il giornalista e che sempre di più porterà a bypassare questi nodi di controllo. Diversamlente non farei più questo mestiere.
NB: questo é soltanto un abstract dell'intervento di Maurizio Torrealta…
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