La Corea del Sud è diventata in pochi giorni il palcoscenico di una vicenda politica degna di un K-Drama di ottima qualità, ma con una trama che ha lasciato tutti con il fiato sospeso. Un copione perfetto per un thriller politico, con generali, presidenti, leggi marziali e accuse di tradimento. Ma andiamo con ordine.
Tutto inizia con un dettaglio apparentemente marginale: il presidente Yoon Suk-yeol decide di nominare ai vertici delle forze armate e della polizia alcuni suoi compagni di scuola. Sì, proprio i vecchi amici di classe. Una scelta che ha fatto alzare più di un sopracciglio. Nomine “amicali” ai vertici delle forze armate non sono mai una buona idea, specie in un contesto politico già teso. Difficile credere che sia una coincidenza, e infatti non lo è. Questo gesto ha scatenato critiche feroci e fatto emergere preoccupazioni su possibili derive autoritarie. Perché non c’è niente di più sospetto di un vecchio gruppo di amici che all’improvviso prende il comando di polizia ed esercito.
E mentre il pubblico discute di queste nomine, un altro potere invisibile ma sempre presente fa capolino: i Chaebol, le dinastie familiari che controllano l’economia sudcoreana. Questi conglomerati, tra cui i giganti Samsung, Hyundai e LG, non hanno bisogno di “dichiarare” nulla per far valere il proprio potere. Lo esercitano in silenzio, ma in modo efficace. Quando c’è una crisi politica, il loro nome salta sempre fuori. Che ruolo hanno giocato i Chaebol in questa storia? Per ora, non ci sono prove di un loro coinvolgimento diretto, ma in Corea del Sud nulla è mai così chiaro. Ogni presidente, da sempre, ha avuto a che fare con loro, spesso uscendo sconfitto.
La situazione però degenera quando, in una mossa degna dei manuali di strategia politica, Yoon Suk-yeol dichiara la legge marziale. Sì, proprio così: la legge marziale. Lo fa di notte, senza preavviso, giustificandola con la necessità di “sradicare infiltrazioni della Corea del Nord“. Una mossa a sorpresa che ha paralizzato il paese e scatenato il panico. Ma il tempismo e le modalità della dichiarazione hanno fatto storcere il naso a molti. “Sradicare infiltrazioni nordcoreane” è la scusa perfetta per chi vuole sbarazzarsi dei nemici interni, e a Seul lo sanno tutti. Il risultato è stato immediato: carri armati intorno al parlamento, soldati che tentano di entrare nell’edificio, e il Parlamento che si riunisce d’urgenza per annullare la legge marziale. Un vero e proprio scontro istituzionale in diretta.
Il parlamento vota e revoca la legge marziale, mentre fuori i cittadini osservano increduli. Alcuni soldati provano addirittura a entrare nell’edificio parlamentare, ma vengono respinti. Sembra il climax di un film d’azione, ma è tutto vero. Nel frattempo, il governo cerca di mantenere la calma, ma l’impressione è che il controllo della situazione sia sfuggito di mano. È a questo punto che inizia la vera resa dei conti.
Con la legge marziale ormai annullata, parte l’inchiesta del Ministero della Giustizia. Non si tratta di un’inchiesta qualsiasi. Il ministro della Giustizia apre un’indagine con un’accusa pesantissima: insurrezione. Sì, proprio insurrezione, una delle poche accuse che, secondo la legge sudcoreana, permette di revocare l’immunità al presidente in carica. E infatti, Yoon Suk-yeol perde il diritto all’immunità e si ritrova sotto indagine formale. Non può lasciare il paese, non può sottrarsi agli interrogatori, e ora rischia grosso. Se venisse riconosciuto colpevole, la pena sarebbe l’ergastolo o addirittura la pena di morte. È uno scenario da brividi, specie per un presidente in carica.
Mentre Yoon tenta di difendersi, il suo ministro della Difesa, Kim Yong-hyun, si dimette e si assume la responsabilità della legge marziale. Un gesto simbolico, ma che non basta a calmar le acque. Viene arrestato con l’accusa di tradimento, un’accusa che nella giurisprudenza sudcoreana è di una gravità inaudita. Con Kim sotto torchio, l’attenzione si sposta di nuovo su Yoon. Gli avvocati del presidente cercano di minimizzare, parlando di “decisione necessaria” e “incomprensioni”, ma nessuno ci crede.
A questo punto, la domanda è una sola: era davvero un colpo di stato? Perché, a conti fatti, ci sono tutti gli ingredienti: controllo delle forze armate, legge marziale, soldati fuori dal parlamento, opposizione azzittita e indagini di tradimento. Ma il colpo di stato non è riuscito. O meglio, si è fermato a metà. È come se la storia si fosse bloccata in una sorta di “freeze frame” cinematografico, dove tutti restano immobili in attesa della prossima mossa. Yoon non è stato arrestato, ma è sotto inchiesta e bloccato nel paese. Il ministro della Difesa è stato sacrificato come capro espiatorio, ma la verità nel “Paese del Calmo Mattino” è sempre sfumata, mai bianca o nera.
Se questa storia vi sembra surreale, sappiate che è solo l’ultima di una lunga serie di drammatiche vicende politiche sudcoreane. Nel passato recente, ben due ex presidenti (Park Geun-hye e Lee Myung-bak) sono finiti in carcere per corruzione e abuso di potere. In Corea del Sud, fare il presidente non è mai stato un “lavoro sicuro”. Se ti va male, finisci dietro le sbarre. Se ti va peggio, rischi l’accusa di tradimento.
C’è però un dettaglio da non sottovalutare. Il rischio di colpo di stato non è svanito. Se il Parlamento perde la sua forza decisionale e l’esercito si schiera compatto con il presidente, la Corea del Sud potrebbe ritrovarsi in una situazione ben diversa. Quello che abbiamo visto non è un colpo di stato “fallito”, ma un colpo di stato “in standby”, in attesa di capire chi avrà il coraggio di premere il tasto “play”.
E qui torniamo al punto di partenza. Le nomine dei compagni di scuola ai vertici delle forze armate e della polizia non erano un caso. Tutto fa pensare che ci sia una regia dietro. Se questa regia sia quella di Yoon o di qualcun altro, resta un mistero. Ma una cosa è certa: la Corea del Sud non è mai stata così vicina a un colpo di stato dai tempi di Park Chung-hee.
Per ora, i titoli dei giornali dicono che “il colpo di stato non c’è stato”. Ma la sensazione è che sia stato solo messo in pausa. Per ora.