“Che i figli facciano il lavoro dei padri”. L’ennesima dichiarazione fuori dalle righe di Briatore accende la polemica.

La Storia ci ha già insegnato che le società senza mobilità sociale sono destinate a fallire

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di Prof. Alberto Forte

Chi di noi non si è rammaricato almeno una volta della difficoltà di reperire artigiani, anche bravi magari, di questi tempi? Non c’è dubbio che i giovani non imparano più certi mestieri che sono ancora molto utili alla società. Quindi, le dichiarazioni fatte dall’imprenditore Flavio Briatore nel corso del programma Carta bianca su RAI 3, di cui era ospite, hanno subito provocato feroci polemiche.

Briatore, riassumendone in breve le parole, avrebbe sostenuto che dato che mancano falegnami, muratori e artigiani, i figli di questi lavoratori sbaglierebbero a frequentare l’università invece di imparare il mestiere dei padri.
Secondo Briatore, i genitori dovrebbero invece incentivare i figli a continuare l’attività di famiglia, consentendo così la sopravvivenza di queste professioni in pericolo. Tuttavia, è semplice constatare che sono molte le ragioni che inducono i figli a non continuare l’attività paterna:

  • i cambiamenti velocissimi in atto nel mondo del lavoro che richiedono piuttosto lavori altamente specializzati per l’industria  e l’agricoltura 4.0, per i servizi avanzati, per la digitalizzazione dei sistemi produttivi in generale;
  • la flessibilità che oggi caratterizza il mercato del lavoro, per cui una persona è costretta a cambiare più lavori nell’arco della sua vita lavorativa o a compierne due o tre contemporaneamente per totalizzare uno stipendio intero;
  • una complessità burocratica e un regime fiscale sfavorevole alle attività artigianali;
  • il fallimento dell’istruzione professionale.

o per il fatto che anche il tanto decantato made in Italy riscuote successo e fa fatturato quando si accoppia alla tecnologia e all’innovazione.

O ancora, come ha sottolineato Bianca Berlinguer, conduttrice di Carta bianca, perché i “figli non dovrebbero essere costretti  a continuare il lavoro dei genitori, ma dovrebbero avere la libertà di scegliere il proprio futuro professionale”.

Eppure, dietro queste dichiarazioni c’è molto di più: la visione di una società non orientata al futuro, al cambiamento, alla mobilità sociale e all’inclusione. Quello che auspica Briatore è proprio quello che condanna l’Italia all’arretratezza economica e sociale. Circa il 40% degli occupati nell’industria è occupato nella stessa posizione del padre, ancorati alla classe di origine e appartenenza; il 44% degli architetti è figlio di architetti, il 42% dei laureati in giurisprudenza è figlio di laureati in giurisprudenza, il 40% dei farmacisti è figlio di farmacisti (fonte CENSIS) e tale schema si ripropone in tutte le classi sociali. Anzi, secondo l’ISTAT un terzo dei giovani alla loro prima occupazione si trova un gradino più in basso della scala sociale rispetto ai loro padri.

E’ questo immobilismo sociale che blocca l’indipendenza e la capacità propositiva delle nuove generazioni, ne impedisce l’occupazione qualificata e  limita lo sviluppo economico del nostro paese. Nelle dichiarazioni di Briatore si avverte un’idea nostalgica di società immobile, orientata ai privilegi e alle posizioni economicamente forti di una elite che ce l’ha fatta per storia familiare, per amicizie, per possedere la dote dell’opportunismo, a volte anche per capacità personali, benché l’Italia non sia nota per essere il paese della meritocrazia.

Questa visione della società non solo esprime una visione arretrata dello sviluppo sociale e fa venire alla mente il termine “Italietta”, non solo può essere disumana, perché non si cura dei desideri, dei talenti e dei bisogni delle persone, ma condanna un sistema paese al fallimento.
Ce lo insegna la Storia. La storia dell’Imperatore Diocleziano per la precisione. Quando salì al trono nel 284 d.c. l’Impero di Roma si avviava verso un periodo di splendore. Il peggio era passato. La pace interna era stata raggiunta, la pressione dei barbari ai confini era diminuita, la popolazione cresceva così come i commerci e l’edilizia. Diocleziano per affermare il suo potere e preservare l’unità dell’Impero varò una serie di riforme. Politiche, come la Tetrarchia, amministrative, militari. Divinizzò il suo potere e la sua persona. La riforma delle province rese marginale l’Italia che precipitò in una grave crisi economica, come del resto, per situazioni contingenti, tutto l’Impero.

Per arginare tale crisi economica dovuta soprattutto a processi di tipo inflazionistico, Diocleziano attuò altre riforme come l’editto dei prezzi, il costo fisso delle prestazioni lavorative e l’ereditarietà dei mestieri, che nel contesto dell’epoca non doveva certo servire a garantire l’apporto di contadini e braccianti o di artigiani, ma ad avere una ordinata ed efficiente riscossione delle tasse.

Non si possono fare semplicistici ed inopportuni paragoni, tuttavia si può fare una riflessione su un provvedimento che divenne allora, come obbligo, e può diventarlo oggi come indirizzo di sviluppo, molto negativo per l’economia. L’ereditarietà dei mestieri portò alla configurazione di una società statica, immobile, e condannò al fallimento un sistema che aveva nella dinamicità e nella possibilità di migliorare le condizioni individuali uno dei maggiori punti di forza e di sviluppo. Proprio come accade in qualunque paese contemporaneo.

   

 

 

Redazione Universinet Magazine
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